Gesù buon pastore
Quarta domenica di Pasqua e domenica del buon pastore. Questa denominazione nasce dall’immagine di Gesù “buon pastore” presentata nel Vangelo odierno (Gv 10,11-18). Nella Bibbia la figura del pastore si radica nell’esperienza stessa del popolo d’Israele: i padri Abramo, Isacco e Giacobbe erano pastori e così pure Mosè e Davide. Il titolo di pastore poi fu esteso ai capi e alle guide religiose, i quali però spesso non si prendevano cura del popolo ma lo sfruttavano e l’opprimevano. Furono soprattutto i profeti ad usare parole molto dure nei confronti dei pastori che si comportavano in tal modo. Il Vangelo di oggi inizia con l’affermazione “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore” (v 11). L’espressione “Io sono” rimanda al nome di Dio rivelato a Mosè (Es 3,14) mentre “buon pastore” indica non tanto la bontà ma l’essere pastore vero, quello che realizza in modo pieno e perfetto il proprio compito. Con queste parole dunque Gesù ci rivela di essere Dio e di essere l’autentico pastore del suo popolo. Un pastore che sa donare la sua vita per le sue pecore che siamo noi. Un pastore che ama e protegge, che custodisce e difende il suo gregge fino al dono totale di sé. Per ben cinque volte ritorna in questo testo evangelico “dare la vita”: è il chiaro riferimento a Gesù che ama così tanto l’umanità da offrire la sua vita fino alla morte di croce. Ecco l’atto culminante dell’essere pastore: il dono della propria vita per le pecore. Al buon pastore si contrappone il mercenario “al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde” (v 12). E tutto questo perché al mercenario “non gli importa delle pecore” (v 13). Quanto è diverso l’agire del pastore da quello del mercenario! È proprio l’amore o il non amore per le pecore che fa la differenza. Infatti uno è volto sempre al bene delle pecore, a proteggerle nel pericolo, a stare con loro, a morire per salvarle perché sono le sue pecore, le ama e gli appartengono mentre l’altro non ama le pecore e di fronte al pericolo, al “lupo”, al maligno pensa solo a sé stesso, non dona la propria vita per esse ma le abbandona esponendole alla rovina e alla morte. Come è grande l’amore di Gesù per noi e quanta responsabilità, quanto c’è da riflettere qui soprattutto per chi nella Chiesa è chiamato ad essere pastore secondo lo stile di Gesù. “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (v 14). Nel linguaggio biblico il verbo conoscere non indica una conoscenza astratta e superficiale ma una relazione intima e profonda con il Signore che è amore e comunione. Questo stretto legame di conoscenza tra il pastore e le pecore, questo vincolo d’amore tra Gesù e noi si fonda sulla relazione di conoscenza che c’è tra il Padre e il Figlio e si esprime nel dono che il Figlio fa di sé per le sue pecore. Gesù infatti dice: “Così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (v 15). “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore” (v 16). Gesù non è pastore solo per Israele ma per tutti i popoli che salvati mediante la sua morte e risurrezione e ascoltando la sua voce, cioè la sua Parola, diventeranno un unico gregge sotto un unico pastore. “Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (vv 17-18). Qui Gesù fa riferimento alla sua morte e risurrezione che si attuano in piena libertà e totale obbedienza alla volontà del Padre per amore e per la salvezza dell’umanità. Oggi si celebra anche la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Tutti sentiamoci impegnati a pregare il Signore perché doni alla sua Chiesa vocazioni sante, ci renda custodi di ogni vocazione, discepoli chiamati a seminare speranza e costruire la pace.